Nicoletta Salsa, una voce piena di storie

Una laurea in lingue e letterature straniere, tanti ruoli, dieci anni in una multinazionale, un talento sepolto a lungo, una svolta e una virata.
Dopo tanti anni di brevi chiacchiere del più e del meno a bordo vasca (perché ci siamo conosciute in piscina), finalmente Nicoletta Salsa e io riusciamo a prenderci un’oretta quieta per scambiare qualche parola in più, complici i ritmi lenti della vampa d’agosto.

Nel momento in cui ci incontriamo, Nicoletta è appena tornata da Montecatini. Una decina di giorni prima mi ha detto “Sai che sono in finale a un concorso di canto a Montecatini?” e poi è tornata vincitrice.
Curiosa, mi sono fatta raccontare del concorso, ma soprattutto di lei e della sua voce.

S. – Parlami del concorso: come si chiama, come funziona e cosa hai vinto?
N. – Si tratta del Concorso Canoro Voci d’Oro, che si svolge a Montecatini e che è arrivato alla 16a edizione.
Il concorso è diviso in 3 categorie: junior (fino a 14 anni), giovani (fino ai 39) e senior (oltre i 39). La categoria senior si divide in cantautori e interpreti di cover e accoglie anche professionisti che vogliono presentarsi.
Quando ho sentito del concorso mi sono voluta iscrivere, ho voluto provarci, così ho inviato delle tracce audio da far valutare per la prima selezione dei partecipanti. Non avevo mai partecipato a un concorso ed è andata decisamente bene! Fra l’altro la fortuna è stata dalla mia, perché ho finito di lavorare il 13 luglio e il 14, ultima data disponibile per l’esibizione, sono corsa a Montecatini. La sera mi sono esibita e tre giorni dopo ho saputo via internet che facevo parte delle finali. Così sono tornata per la finale e ho vinto: primo posto fra gli interpreti senior e vincitrice assoluta senior. Il premio consiste nella registrazione e produzione di un brano inedito e probabilmente faremo anche un video.
E’ stata un’impresa e una conferma al tempo stesso. Avevo dato tutto quello che potevo in quei 3 minuti di brano. Ho cantato “At Last” di Etta James, su una base utilizzata da Beyoncé.

Ecco… già che ci siamo ve la faccio sentire (e vedere).

S. – Insomma si prospettano belle novità impegnative ma anche divertenti! Com’è la vita della cantante?
Ci pensa un po’ e poi mi spiega che…
N. – Per il canto serve tempo per se stessi. La voce è come una figlia e va accudita.
Mi accorgo della vita dura della cantante quando si avvicina un appuntamento, perché è lì che ci si inizia ad agitare. Ti fai domande come: oddio e se prendo aria? Oddio e se mi raffreddo? Cominci ad avere un riguardo per te stessa, specialmente se è inverno. Scappi via da chi fa uno starnuto, cerchi di crearti una situazione il più favorevole possibile. A livello fisico dovresti risparmiarti tutte le energie possibili, il corpo deve essere perfettamente funzionante per il momento X.
Addirittura prima di un concerto bisognerebbe evitare di parlare (tanto) e sicuramente di urlare.
Anche le prove si fanno “in sordina”. Ad esempio c’è un brano di Edith Piaf che si intitola “Le clown” ed è la storia di un pagliaccio che lavora in un circo e che è buonissimo e non si accorge che tutti lo prendono in giro (la folla che gli ruba le risate, la moglie che lo tradisce, il figlio anche). Alla fine il clown impazzisce e viene rinchiuso in un manicomio. C’è un momento in cui si deve urlare “bravo” bravo!”, come venisse dalla folla. E’ un urlo di disperazione gridato più volte e devi riuscire a tenere tutta l’energia per quei momenti molto carichi. Ci sono dei brani che ti rendono attrice, in quei momenti cambi, diventi il personaggio, come il clown della canzone. Urli tu, sei tu il pagliaccio, devi avere cura della voce per farla esplodere al momento giusto e devi fare tua la canzone, perché va interpretata, come recitata. Quando una persona canta lo fa con il corpo e la mente che è quella che permette di far arrivare il messaggio. E’ sempre un’emozione grande andare in scena, specialmente quando si avvicina lo spettacolo, fino a un attimo prima.

S. – Perché, cosa succede?
N. – Quando c’è lo spettacolo, c’è sempre la fifa da tremarella, perché sai che sei davanti a un pubblico e quello che fai non si cancella, non torni indietro. C’è stata una volta in cui ho avuto il vuoto mentale iniziale, ero al teatro Coccia, nel 2009. In quell’occasione avevo invitato anche degli amici di Novara e questo crea del timore. E’ peggio quando c’è qualcuno che conosci. Dietro le quinte, sipario chiuso, ero da sola a destra del sipario e tutti gli altri componenti dello spettacolo erano a sinistra. Da lì il tecnico di palcoscenico mi ha detto “attenzione si apre il sipario!”. In quel momento non ricordavo nemmeno la melodia del primo brano. Un vuoto pauroso: cosa faccio adesso?
Ero anche vicino al monitor che controlla il palco dall’interno e lì vedevo il sipario che si schiudeva e io avrei aperto lo spettacolo. Un istante prima di fare il passo di ingresso è tornata la memoria, un miracolo!
Poi ci sono delle canzoni che ti muovono qualcosa dentro e la capacità sta nel riuscire a emozionare gli altri senza emozionarti a tua volta. La prima volta che ho cantato “Mon Dieu” di Edith Piaf mi sono accorta di emozionarmi e piangere. E’ un brano poco noto in Italia, si tratta di una preghiera in crescendo, di una donna che prega Dio che le lasci il suo compagno ancora per un giorno, due, una settimana, ancora un po’. Ho dovuto lavorarci per bene su per non piangere in scena. Devi provare e provare l’emozione che il brano suscita in te e sfogarti e dire “fallo adesso e mai più”, perché in scena non puoi.

S. – Anche con l’esperienza certe sensazioni non se ne vanno, eh? A proposito di Edith Piaf, hai interpretato a lungo i suoi brani nello spettacolo “Un usignolo dal cuore grande, Omaggio a Edith Piaf”. Cosa mi racconti a riguardo?
N. – Tutto è iniziato una sera a Omegna, quando ho avuto occasione di vedere lo spettacolo grazie all’invito di una vicina musicista. Mai avrei pensato di farne un giorno parte! Io sono entrata nello spettacolo quando l’ultima cantante ha lasciato la compagnia, nel 2007/2008. Nell’anno precedente avevo cantato a palazzo Natta per la festa della donna e avevo preparato un recital con un pianista (Federico Capra) portando alcuni brani fra i quali l’Hymne à l’amour e la Vie en rose di Edith Piaf. Un mattino mi squilla il telefono e Filippo Rodolfi (ndr. musicista dello spettacolo), che non conoscevo, mi chiede se voglio provare a cantare i 14 brani dello spettacolo. Così ci siamo incontrati, ho provato pochi secondi, mi ha dato il copione e ho passato l’estate a imparare a memoria e a cercare di interpretare questi brani. Ogni brano è l’istantanea di una vita, una galleria di una serie di personaggi. Così accade nello spettacolo in cui l’alternanza monologo-brano crea un vortice che ti porta ad avere un’idea globale di Edith Piaf in vita. I monologhi sono di Gianni Lucini, scrittore e giornalista di Novara, sono interpretati da Bruna Vero (l’attrice) mentre io canto le canzoni accompagnata dalla piccola orchestra composta dal pianista Filippo Rodolfi, dal contrabbassista Fabio De March e dal batterista Max Campanella.
Siamo in 5 e siamo sempre tutti in scena. 5 sono anche i personaggi diversi che Bruna Vero interpreta. Sono personaggi che hanno incontrato Edith Piaf nella vita: la cameriera, la prostituta, la giornalista, la popolana e una figura che veste di nero ma non è ben definita e potrebbe essere la morte o Marguerite Monnot -amica fedele di Edith Piaf- o qualcun altro.

S. – Mi togli una curiosità? Hai sempre cantato?
N. – No, mi sono avvicinata alla musica studiando pianoforte classico dall’età di 9 anni fino a 16/17. Studiavo da privatista e ho fatto l’esame di solfeggio al conservatorio di Torino. Poi sono andata all’università. Non pensavo affatto di cantare, però mi piaceva andare al cinema e avevo l’abbonamento all’Araldo. Un giorno, mi ricordo bene, c’era in programmazione “Hair”: sono rimasta talmente affascinata da quel film che lo ho guardato 3 volte di seguito! Tornata a casa sono andata a comprare l’LP e mi sono messa a cantare un brano bellissimo che una donna nera canta in mezzo a un parco tenendo per mano un bambino. E’ disperata perché il suo compagno vuole lasciarla e partire. Ho cominciato a cantare a squarciagola quel brano, sai, per dar sfogo a forse una certa rabbia o ai timori che hai a 19 anni, quando cerchi il tuo modo di importi nel mondo.
E’ così che mi ha sentito Carla Maria Rossanigo, la mia vicina di casa, che era insegnante di canto. Mi ha fermato chiedendo se fossi io a cantare. Le ho detto di sì e mi ha fatto fare la classica ottava esclamando “ma tu sei un mezzosoprano!” Da quel giorno ho cominciato con lei a fare vocalizzi lirici, mi diceva che la lirica è l’università del canto e ho fatto con lei un percorso di 3 anni.
Però la lirica non faceva per me, mi sentivo ingabbiata perché nella lirica tutto deve essere perfetto e replicabile allo stesso modo ogni volta. Io volevo cantare le canzoni di Barbra Streisand. Avevo bisogno di esprimermi in modo molto più libero e sono stata attirata da un gruppo rock, gli Atto, che cercava una voce lirica per i suoi brani. Avevo 22 anni. Carla Maria Rossanigo si è accorta subito che era cambiato qualcosa!
In seguito sono accadute delle vicende che mi hanno fatto smettere di dedicarmi alla musica, però 10 anni più tardi le cose sono di nuovo cambiate e ho riprese a fare i vocalizzi, cercando di trovare il punto di equilibrio fra ciò che avevo imparato nella gestione del fiato e la gestione della mia voce in modo naturale. Non voglio “stravolgere” la mia estensione andando oltre e utilizzando i “suoni di testa” del canto lirico. Il pensiero va sempre alle grandi voci, quelle che ti fanno sentire il velluto, la morbidezza e ti accarezzano.

E poi ci mettiamo a chiacchierare di idee future e mi improvvisa dei meravigliosi brani di Edith Piaf.
Sono curiosa di sentire il brano inedito e vedere il video che ne deriverà. Ma anche di rivederci e riprendere il discorso. Dopo tutto devo ancora curiosare nella parentesi rock e saperne di più sugli Atto.
E’ un meraviglioso mondo pieno di storie da raccontare.

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