Ecco una prima idea per il prossimo fine settimana: il Museo dell’Ombrello e del Parasole di Gignese. Il Museo non si trova a Gignese per caso. Qui c’è una lunga tradizione in fatto di ombrelli.
Solo qualche decina di anni, fa -era più o meno la metà del secolo scorso – strade e cortili risuonavano del grido di richiamo di artigiani ambulanti: c’era l’arrotino (il mulita), lo straccivendolo (al strascè), il cadregat che riparava sedie di paglia e l’ombrelè che riparava ombrelli. (Scusateci se non abbiamo scritto bene questi nomi).
I “lusciàt”, erano gli ombrellai che venivano dal Vergante, un po’ come gli spazzacamino. Rimanevano lontani da casa per parecchi mesi all’anno e conducevano una vita ‘grama’ perché, per risparmiare i soldi per la famiglia, si accontentavano di pasti frugali e dormivano un po’ dove capitava. Riparavano ombrelli e in qualche caso fortunato ne facevano uno nuovo.
Si trovavano una volta all’anno, a capodanno, nella piazza di Carpugnino. Era l’occasione per incontrarsi e per trovare degli aiutanti, più o meno gratis. Le famiglie povere affidavano agli ombrellai ambulanti i loro figli più piccoli perché imparassero un mestiere e anche per avere una bocca in meno da sfamare.
Su un’epigrafe nella piazza di Carpugnino si trova scritto: “Al prumm dal lungon a Carpignin, a truà l’ Casér senza an bergnin“, cioè “il primo dell’anno a Carpugnino, a cercar padrone, senza un soldino”.
La tradizione voleva che quando un ombrellaio apriva la sua prima bottega, scrivesse sulla porta ‘luscia, el lusciat piòla’ ovvero ‘piove, l’ombrellaio si prende una sbornia’. Era di buon augurio perché quando arrivava la pioggia gli ombrellai facevano affari.
Sembra che a insegnare agli uomini a costruire ombrelli sia stato Tarùsc uno gnomo scontroso, permaloso e dispettoso, ma d’altra parte era rosso di capelli, che viveva alle pendici del Mottarone e sulla Motta Rossa.